Il tema del consenso informato in medicina veterinaria è un un tema delicato. Spesso ignorato. Forse dato per scontato. Poco conosciuto, anche tra gli addetti ai lavori. Magari solo erroneamente interpretato. Non poche volte colposamente male interpretato.
Intendiamoci subito. Non si tratta affatto di una formalità, quella del consenso informato. E non vi è alcun legame tra la sua acquisizione e una buona o meno prestazione professionale resa. La sua mancanza è fonte di autonoma responsabilità in danno del professionista, oltre che costituire grave violazione deontologica.
Chi scrive non poche si trova di fronte a consensi inesistenti e non può essere solo colpa di una legge che disciplinando il consenso informato parrebbe avere omesso qualsiasi riferimento alla professione veterinaria, esattamente come ha fatto la legge Gelli-Bianco, i cui regolamenti attuativi mi pare siano ancora non pervenuti. Una legge, quest’ultima, sbilanciata sulla sanità umana e sul paziente-persona, nulla dicendo con riferimento al paziente non umano. E dunque i veterinari sono considerati tra gli esercenti le professioni sanitarie? Mi rendo conto che la domanda potrebbe apparire irriverente per runa categoria professionale di assoluto rispetto, pari a quella dei medici di medicina umana. Eppure ancora oggi i dubbi permangono e non son stati mai dissipati in modo chiaro e netto.
Mi rendo altresì’ perfettamente conto che è difficile immaginare una fedele attuazione della ratio legis, soprattutto considerando come l'attuale medicina veterinaria sia sempre più lontana dall’immagine poetica del veterinario dell'amaro Averna avvicinandosi oggi agli standard organizzativi delle più avanzate strutture (private) per la medicina umana.
Comprendo tutto, ma credo debba essere chiaro -agli stessi veterinari- che il consenso informato è cosa profondamente diversa dalla presa visione o accettazione del preventivo di spesa per le imminenti prestazioni veterinarie. E questo per la semplicissima ragione che il consenso informato non è "un documento" ma è una “attività” che viene certificata da un documento. Attività che, si dimentica, rappresenta e costituisce, secondo la legge, tempo di cura.
Il consenso informato, anzi la sua acquisizione, deve essere preceduta da una adeguata informazione in assenza della quale non vi può essere valido (e informato) consenso. Il vero nervo scoperto è tutto qui, nella adeguatezza della spiegazione tenendo ben a mente che quando il cliente del veterinario acconsente non significa che automaticamente abbia inteso quello che gli è stato proposto.
E questo per una semplice ragione. Fare un copia incolla dell'art.29 del codice deontologico come anche scrivere un piccolo trattato di medicina veterinaria e di buone procedure chirurgiche, valido per ogni stagione, non soddisfa la ratio legis. Questo “trattato” è il più delle volte assolutamente non conferente alla prestazione da eseguirsi. E il paziente/cliente (nel caso del veterinario) non ha mai il tempo di leggerlo e, se lo avesse, non ha, nella più parte delle volte, le competenze per capire cosa ci sia è scritto in quel pezzo di carta. Pezzo di carta che, spesso, deve leggere nonostante sia sopraffatto da una ingovernabile ansia per la sorte o per le condizioni di salute del suo animale.
Un consenso che, qualora l’approccio terapeutico muti nel corso di una prestazione sanitaria, non può essere comunicato telefonicamente dal veterinario (fatta salva una condizione di pericolo di vita dell’animale).
Purtroppo troppo spesso i moduli di consenso informato in medicina veterinaria sono affidati ad asettici e poco intelligibili moduli che non veicolano al destinatario una informazione idonea a porlo nella possibilità di valutarla e di autorizzare o meno la prestazione medica.
In questo modo non si rispetta la dignità dell’animale sottoposto a cure veterinarie, quale essere senziente e allo stesso modo viene leso il principio di autodeterminazione del suo compagno umano.
La giurisprudenza sul punto è costante.