La terza sezione della Cassazione fa il punto in tema di onere della prova.
All’origine di questa triste vicenda di responsabilità sanitaria una amniocentesi eseguita alla quindicesima settimana di gravidanza. L’epilogo è il peggiore, aborto. La vicenda giunge in Cassazione ritenendosi l’esame eseguito in modo imprudente e imperito, non secondo le leges artis. Mi soffermo sull’aspetto giuridicamente, ma non umanamente, più rilevante ossia la ripartizione dell’onere probatorio in tema di responsabilità sanitaria. La sentenza in commento (n. 10050 del 29.3.2022) riassume l’orientamento della corte.
Una preliminare e necessaria premessa. La Corte di Appello capovolge la decisione di primo grado e rigetta la domanda di risarcimento proposta dai genitori che hanno sostenuto l’errore medico nell’esecuzione dell’esame. Questi, cioè i genitori, ricorrono in Cassazione e si dolgono della decisone della Corte di Appello che, in spregio della natura contrattuale della responsabilità sanitaria per cui incombe sul debitore (struttura sanitaria e/o medico) l’onere di dimostrare di aver "fatto tutto il possibile per adempiere”, avrebbe fatto dipendere il rigetto della domanda dalla mancata dimostrazione, da parte del paziente (qui la gestante), del fatto colposo del medico (quando invece questi deve solo allegare -ma non anche a provare- l’inadempimento o l'inesatto adempimento della struttura e/o del medico).
Le motivazioni della Corte di Appello
Sotto la lente di ingrandimento l’esecuzione della amniocentesi che sarebbe stata eseguita in modo imprudente e imperito avendo il medico, contrariamente alle indicazioni della letteratura medica, proceduto a tre consecutive inserzioni dell'ago nell'utero della donna, con ciò provocandole il pericolo di aborto, come poi avvenuto. Una condotta, quella del medico, che trovava unica conferma nella testimonianza della madre della gestante, madre che aveva riferito di avere assistito all'amniocentesi da dietro un paravento grazie ad una fessura aperta nello stesso. Testimonianza che la Corte di Appello ritiene poco attendibile (scarsamente credibile che il personale potesse lasciare assistere un congiunto della paziente all’intervento; meno plausibile che da dietro un paravento la teste avesse potuto constatare la malpratica; certamente non indifferente la teste rispetto alla gestante).
Ridimensionato anche l'esito dell'accertamento peritale espletato in primo grado dove il ctu affermando l'opportunità che, in sede di effettuazione dell'amniocentesi, non fossero eseguiti più di due inserimenti per volta, rinviando di una settimana l'esecuzione dell'eventuale terzo prelievo, ove se ne verifichi la necessità, postulava l'accertamento in fatto di tale circostanza che, come anticipato, scontava una non sottovaluabile inattendibilità delle dichiarazioni testimoniali sul punto.
Tutto ciò premesso, a dire della Corte di Appello non poteva dirsi affatto raggiunta la prova della imperita condotta del medico.
Il ragionamento della Corte di Cassazione
Per la Corte, come si dirà, il motivo di ricorso proposto dai genitori è fondato.
La vicenda in commento riguarda una fattispecie di responsabilità medica non sottoposta al regime introdotto dalla legge Gelli-Bianco (2017) poiché riferita a fatti che si sono svolti in epoca antecedente ad essa. Legge che ricordiamo ha ricondotto la natura della responsabilità del medico da contrattuale a extracontrattuale laddove operante quello in una struttura pubblica o privata mentre ha lasciato inalterata la natura della responsabilità della struttura come responsabilità di tipo contrattuale; un sistema per cui per lo stesso fatto non si condanna il medico ma si condanna la struttura all’interno della quale egli ha operato.
Orbene In virtù di tale natura contrattuale (della responsabilità medica) il paziente (creditore) che abbia provato la fonte del suo credito ed abbia allegato che esso sia rimasto totalmente o parzialmente insoddisfatto non è altresì onerato di dimostrare l'inadempimento o l'inesatto adempimento della struttura/medico (debitore), spettando a quest'ultimo la prova dell'esatto adempimento.
Nel caso specifico si tratta di una obbligazioni professionali o di diligenza professionale (quale è quella originata dall’ars medica). Differentemente che nelle obbligazioni ordinarie (di dare o fare) in quelle di diligenza professionale l’interesse dedotto nel contratto è strumentale rispetto ad un altro interesse primario non contemplato nel contratto (diritto alla salute, alla guarigione). L’interesse strumentale è che il medico adempia correttamente la propria prestazione dedotta nel contratto stipulato, adempia cioè secondo le c.d. leges artis.
Ciò detto il creditore della prestazione professionale (il paziente) deve allegare, cioè spiegare, esporre l’inadempimento qualificato e astrattamente idoneo a determinare la lesione dell’interesse primario (quindi la violazione delle legger artis) quindi dimostrare secondo la nota regola del “più probabile che non” la sussistenza del nesso di causa tra la condotta inadempiente del medico e il c.d danno evento (in questo caso il procurato aborto).
Sarà invece onere del medico ove il predetto nesso di causalità materiale sia stato dimostrato, provare o di avere eseguito la prestazione con la diligenza, la prudenza e la perizia richieste nel caso concreto, o che l'inadempimento (ovvero l'adempimento inesatto) è dipeso dall'impossibilità di eseguirla esattamente per causa a lui non imputabile.
A dire della Corte il giudice di secondo grado avrebbe ha completamente disatteso tali principi. Una volta dimostrata la relazione di causalità tra l'intervento sanitario praticato alla gestante e il successivo evento abortivo, non sarebbe spettato alla quella provare la dedotta condotta imprudente e imperita del medico, ma sarebbe spettato a quest'ultimo (e alla struttura sanitaria) dimostrare che tale condotta non vi era stata, che la prestazione era stata eseguita con la dovuta diligenza professionale, e che l'evento di danno si era verificato per una causa non imputabile al sanitario. Più nello specifico la sentenza chiarisce che una volta emerso e provato il nesso causale tra l'intervento sanitario e l'evento dannoso, non spettava alla paziente (che aveva debitamente allegato l'errore del medico, asseritamente consistente nell'indebita effettuazione di tre consecutivi prelievi di liquido amniotico, in contrasto con le indicazioni provenienti dalla letteratura medica) dimostrare tale circostanza, concretante l'inesatto adempimento della obbligazione professionale, ma spettava al professionista e alla struttura sanitaria dimostrare l'esatto adempimento, provando, in ossequio al parametro della diligenza qualificata di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, di avere eseguito l'amniocentesi in modo corretto, attenendosi, anche in relazione al numero dei prelievi effettuati, alle regole tecniche proprie della professione esercitata.
Per tale motivo la sentenza impugnata viene cassata con rinvio della causa alla Corte di appello perché si uniformerà ai principi sopra illustrati.