Una simile affermazione, piaccia o non piaccia, è corretta. Non sarebbe piaciuta a Piero Martinetti che già nel 23 scriveva che proprio per il fatto che noi abbiamo doveri verso gli animali, questi hanno diritti. I nostri doveri verso di loro, gli animali non umani, sono certificati da innumerevoli fonti normative, nazionali e sovranazionali, recenti e meno recenti. Sostenere però oggi in un tribunale una loro titolarità di diritti è impresa (ancora) ardita. Il rischio è la sottolineatura con matita rossa da parte del giudice. Questo perchè anche se la disciplina pubblicistica (pensiamo al diritto penale, al diritto amminstrativo) garantisce tutela agli animali (certo perfettibile) la stessa disciplina non rende comunque questi ultimi titolari di diritti. Una titolarità che non coincide con la loro senzienza riconosciuta dalla scienza. Pur provare dolore e piacere sono privi della capacità giuridica che il nostro ordinamento (sottolineo nostro) riserva alle persone fisiche e a quelle giuridiche e a questi ultimi con un opportuna e necessaria finzione giuridica che non si ritiene ancora di attribuire agli animali. Parlare di diritti degli animali può avere senso solo in un significato atecnico e agiuridico con la conseguenza che scrivere -come ho fatto- in un atto introduttivo di un giudizio civile di ruolo di figura di riferimento di una persona fisica rispetto ad un cane, di titolarità in capo ad un cane del diritto al mantenimento o alla serenità, di possibilità di affidare il cane ad uno solo od entrambi i soggetti che ne sarebbero proprietari (indicando condizioni di mantenimento o prescrizioni) costituisce esposizione atecnica e gergale. Di quale rilevanza giuridica circa l’accertamento del profondo legame affettivo e relazionale instaurato da un essere umano ho inteso parlare? A quale orizzonte di serenità ed al permanere di condizioni di salute e custodia adeguate alle sue esigenze etologiche mi potevo riferire? Avrei dimenticato che la pur (umanamente) comprensibile relatio tra la “cosa” vivente e la persona umana non può assumere rilievo giuridico. Tutto deve essere riconducibile ad un aspetto privatistico e dunque l’accertamento della proprietà di un animale (in questo caso si trattava di un cane) non può che essere ricondotta all’ art. 922 del codice civile. E dunque ci risiamo. La sorte di un animale (domestico) è affidata al grado di empatia del giudice che si occuperà di quella separazione, divorzio o cessazione di convivenza o fine del magari breve o lungo fidanzamento. Il rischio, per l’animale familiare, è di essere trattato al pari di qualunque altro bene mobile conteso tra i “litiganti”. Il giudice che dovesse pronunciarsi in merito alla sorte di quel certo animale potrebbe ignorare la storia di quella famiglia o di quella coppia “allargata” limitandosi a verificare il titolo di proprietà. Non preoccupandosi affatto della relazione esistente tra l’animale e il compagno umano di riferimento. Magari attribuendo alla intestazione all’anagrafe canina dell’animale domestico un valore che, invero, non ha. Sogna, ragazzo, sogna.